Questo breve racconto ha una storia un po’ più particolare: è un elaborato che avevo scritto per la mia tesi di triennale e che poi avevo reso in altre tre lingue, studiando i problemi più comuni nella traduzione. La versione che riporto invece è stata rielaborata, togliendo tutta una serie di fronzoli letterari e onomatopee varie, che però mi erano serviti per la tesi; la propongo qui in quanto è stata recentemente pubblicata nell’antologia del premio letterario Calanca. Buona lettura.
L’orologio scoccò la mezzanotte.
Niente osava muoversi sulle strade deserte e buie e un leggero vento spazzava via alcune delle prime foglie autunnali, lasciandosi dietro un crepitio secco e impercettibile. Alcuni lampioni, disseminati senza grande precisione, emanavano il loro bagliore fioco, ma la loro luce non bastavano per contrastare l’oscurità che aveva afferrato il piccolo paese nelle sue grinfie.
Il silenzio venne improvvisamente trafitto dal suono cadenzato di un paio di scarpe sull’asfalto. Tra le varie case di quell’isolato solo una restava irrigidita, impassibile alle carezze del vento, ed era proprio lì che si dirigevano i passi. Stridendo, il portone laterale nero e arrugginito si aprì per far passare un’ombra. Vicino all’entrata secondaria si ergeva un cancello massiccio con spuntoni di ferro al cui centro c’era uno stemma sbiadito e tutt’attorno al giardino un muro di pietra proteggeva la casa da sguardi indiscreti.
Il suono dei passi era quasi svanito, attutito dal terreno asciutto e arido che ora stavano attraversando. Il percorso conduceva ad un porticato malridotto; il legno era quasi marcescente e la vernice una volta bianca si stava sgretolando. Quel posto aveva decisamente visto giorni migliori eppure la grande porta verde petrolio della casa sembrava nuova. Era come se quell’uscio fosse l’unica cosa che mantenesse la costruzione dal diventare un cumolo di macerie.
Il suono crepitante del fogliame era diventato solo un mormorio, come se la natura stessa si chiedesse cosa sarebbe successo in seguito.
Sul porticato c’era una sagoma, immobile, che stava osservando l’entrata. L’ombra sfregò un fiammifero sulla scatoletta e una debole fiamma, fatta tremare dalla corrente autunnale, illuminò una mano nodosa dalle grosse nocche. Portandosi la mano in tasca prese le chiavi e con la luce tremolante vicino alla toppa, faticò per aprire il portone. Si ricordò di quando era giovane e di come all’epoca l’oscurità non costituisse certo un problema. Attraversando la soglia, sfregò pazientemente un altro fiammifero e accese una lampada a gas. Il debole bagliore illuminò un corridoio lungo e delle pareti in legno massiccio. Ogni passo che faceva diventava un nuovo cigolio che echeggiava per tutta la casa; seguito da quei rumore attraversò l’antro, percorse tutta la scalinata e infine prese un altro corridoio per arrivare ad una porta color nocciola. Nella mano nodosa aveva già una chiave dorata pronta per il vecchio lucchetto. Con un tonfo sordo premette la maniglia.
La stanza era piccola in confronto al resto della casa, ma aveva uno strano fascino. La maggior parte delle mura erano coperte da un velluto scarlatto, una poltrona color carminio stava confortevolmente aspettando davanti ad un caminetto acceso e un’altra identica era stata posizionata dietro ad un solida scrivania d’ebano. Un orologio a pendolo enorme ticchettava via via, segnando lo scorrere del tempo. Era stato proprio quello stesso Tempo ad essere stato così feroce, così crudo, eppure così imparziale con il resto della casa. Aveva lentamente indebolito e corroso tutto quello che aveva toccato, dalle assi del pavimento traballanti alle scalinate scricchiolanti. I segni che aveva lasciato dietro di sé erano per far sapere a tutti che il Tempo fosse passato. Eppure quella stanza era rimasta intatta, protetta dal suo guardiano, tale e quale a come gli era stata lasciata a lui. Era come se quello spazio fosse stato rinchiuso all’interno di una minuscola biglia di vetro.
L’uomo andò al caminetto, prese un pacchetto di sigarette dallo scafale e ne accese una, posizionandola con cura sul posacenere. Stette lì, guardando come la brace sfrigolante divorasse la carta e come la cenere grigia diventasse lentamente polvere; quando l’odore pungente salì e gli riempì i polmoni, arricciò il naso. Nonostante non gli piacesse, era un odore senza il quale non avrebbe saputo come vivere; suo nonno fumava sempre lì. Era un rituale per quell’uomo che proprio davanti a quel cammino ogni mattina preparava il caffè, fumava, e quando finiva buttava i fondi della caffettiera e il mozzicone nel fuoco. Accendeva ancora quella sigaretta per mantenere vivo quel sentimento dolce e al contempo amaro di nostalgia, come se suo nonno fosse ancora lì al suo fianco. Gli mancava quella persona che era stato per lui come un genitore.
Come se le sue gambe si movessero in modo autonomo, si avvicinò alla scrivania. Su di essa, tra i molti fogli, lettere, bottiglie d’inchiostro e penne, torreggiava la macchina da scrivere di suo nonno. Si sedette e avvicinò la poltrona in una posizione più comoda per poter scrivere. Quali migliori parole per descrivere la prima scena se non le prime che gli venivano in mente? Proprio in quel momento l’orologio aveva segnalato l’ora, e proprio come la realtà lo aveva ispirato in quel preciso instante, scrisse la prima frase: “L’orologio scoccò la mezzanotte.”