Si potrebbe dire, senza troppi preamboli, che esistono film che invecchiano bene e altri che a distanza di svariati anni non riescono a trasmettere un impatto simile a quando sono usciti la prima volta. Sicuramente tra i vari fattori che condizionano questo fenomeno possiamo contare la diversità dei generi cinematografici, le nuove tecnologie impiegate e persino la presenza di un mercato in costante sviluppo detta legge da dietro le quinte. Per quest’ultimo basti considerare la molteplicità di film rigurgitati su una base quasi quotidiana a confronto dei pochi film e soprattutto dei colossal di alcune decine di anni fa. Capire le esigenze odierne secondo quali i film si “consumano” con una frequenza quasi frenetica e la cosiddetta “novità” decade nel giro di pochi mesi presenta certe sfumature che sarebbero da analizzare in un contesto diverso. Con ciò non voglio dare né troppo pregio ai classici né troppo poco merito ai nuovi film.
Ho accennato all’invecchiamento: mi sembra alquanto evidente dire che oggi un King Kong del ‘33 di Cooper e Schoedsack risulti quasi inguardabile se non per uno studente o un appassionato dell’ambito cinematografico. Dall’altra parte uno sketch di Buster Keaton (indicando ad esempio un famoso The General) oppure i dialoghi dei fratelli Marx (citando, con preferenza personale, Duck Soup) a distanza di poco meno di un secolo riescono ancora a risultare divertenti. Qualora quel marchio specifico di comicità non fosse di gradimento personale, è quasi impossibile quantomeno non sorridere ad uno sguardo di arrogante compiacimento di Keaton o ad una battuta linguistica di Groucho. È vero, si tratta di generi diversi: mi rendo perfettamente conto che un film d’azione, particolarmente per il discorso tecnologico, ha molte meno possibilità di invecchiare egregiamente, ma d’altronde sono anche pronto ad opinare che non è un’impresa meno facile per i thriller, i western, i film horror e così via. È anche vero che grazie ad alcuni maestri dei grandi schermi, alcuni titoli rimarranno per sempre delle pietre miliari guadagnandosi giustamente il titolo di “Classici”. Mi limito ad aggiungere che ci sono anche modi per far rivivere determinati generi, esplorati soprattutto nell’ultima decade, aggiungendo semplicemente elementi completamente eterogenei a quelli precedenti; iniziare a puntare il dito contro combinazioni forse un po’ troppo ambiziose come cowboy e alieni o epoca vittoriana e zombie farebbe andare la riflessione che voglio fare da tutt’altra parte (cosa che per quanto avrebbe determinati meriti, vorrei evitare per ora).
Tornando alla riflessione che volevo proporre, la legge della “buona vecchiaia” vale per tutti i genere, anche per i musical. Nella mia opinione, da mero appassionato di cinema, un buon musical è reso tale perché è attraverso la musica e la coreografia che i punti focali della “narrazione” procedono e si sviluppano e non perché ogni singolo momento deve essere morbosamente cantato. Dato che sento che è quello che è successo con alcuni recenti successi, cerco di spiegarmi meglio: se il protagonista si sveglia e deve andare in bagno, può fare a meno di cantarlo. Dicevo, dato che un musical non punta su grandi effetti speciali (non parlo di tecniche cinematografiche come il piano sequenza, ma di fattori che hanno a che fare con la tecnologia disponibile), il prodotto di qualità destinato a perdurare avrà quantomeno alla base una buona scelta di brani musicali, dei momenti chiave ben scelti dove inserirli all’interno del film e un coreografia ben congeniata in sintonia con i momenti e i brani prima accennati. Vengono alla mente coppie memorabili come Fred Astaire e Ginger Rogers, Gene Kelly e Debbie Reynolds (per non dimenticare il povero Donald O’Connor del quale consiglio Call me Madam), nonché film come The sound of music, My fair lady, Cabaret e molti altri, ma vorrei incentrarmi su uno in particolare: Seven brides for seven brothers.
Seven brides for seven brothers, conosciuto in italiano come Sette spose per sette fratelli, è un musical diretto da Stanley Donen e uscito nel 1954. La trama, forse scontato a dirlo considerando il titolo, è incentrata su come i sette fratelli Pontipee, che vivono nelle montagne dell’Oregon, riescono a sposarsi; il primo a prendere moglie è il primogenito, Adam (Howard Keel), e sarà solo grazie alla moglie Milly (Jane Powell) che gli altri riusciranno a corteggiare le donne amate, finendo in un modo leggermente rocambolesco.
Non voglio concentrarmi sui dati tecnici del film, indagare i testi e le parole delle canzoni o spiegare l’armonia e la coesione che si crea tra gli elementi già citati in un musical nel caso specifico. Preferisco analizzare due elementi secondo i quali Sette spose per sette fratelli sia secondo me un bel film da guardare oggi: gli sguardi e il gioco del maschilismo apparente.
Per sbrigare velocemente la questione degli sguardi mi basta dire che l’espressività degli attori si abbina perfettamente allo stato d’animo dei personaggi che interpretano. È il caso di Milly e gli occhi di una innamorata, il caso di Adam che in un momento evita di guardare l’amata per non dirle che sta per sposarsi non solo con lui, ma che nella casa dove abiteranno ci saranno anche sei altri uomini e in seguito il suo stesso sguardo tramutarsi in vergogna mentre i fratelli arrivano uno per uno. Che sia disappunto, che sia innamoramento, che sia malinconia per la persona amata o dolcezza nei confronti di un nuovo membro familiare (o sei in questo caso), il gioco di sguardi è sempre presente. È questo che facilita il cambio di scena e di tono che avviene durante il film e che migliora lo scorrere della narrazione.
Il maschilismo è in realtà una completa sovversione di quello che inizialmente potremmo pensare. Adam vuole una moglie, ma spesso e volentieri, a detta sua e anche di Milly, vuole solo una donna che sia lì per fare le faccende domestiche e tutta la parte del lavoro che lui non è in grado di fare; certo, è solo verso la fine che abbiamo il rovesciamento che ci aspettiamo come pubblico e cappiamo quanto Adam abbia bisogno (un bisogno affettivo) della sua “dolce metà”. Quello che è più interessante notare è che questa consapevolezza gli viene svelata solo grazia all’intervento del forte personaggio di Milly. Proprio lei, che inizialmente crede ad un amore quasi puerile, ma si rende conto velocemente della realtà della situazione; Milly non cambia il suo modo di percepire l’amore, ma cambia la fermezza del suo carattere. Invece di lasciar stare tutto, fuggire o disperarsi, Milly diventa più caparbia persino di prima e inizia a comandare. Qui avviene la vera sovversione: si tratta di un personaggio femminile di tale determinazione da contrastare qualsiasi presunta barriera maschilista. In poco tempo non solo sistema la casa, ma mette anche in riga i sei fratelli che fino ad allora conoscevano solo l’ordine gerarchico della potenza e della virilità. È sempre Milly che insegna loro come comportarsi, come essere gentili, come corteggiare e come rispettare le controparti femminili, anche perché sa esattamente quello di cui sta parlando.
Forse più difficile da giustificare è il Ratto delle Sabine: ad un certo punto, Adam, prendendo spunto dal libro di Plutarco portato da Milly, suggerisce ai malinconici fratelli (che dovranno stare via dalle innamorate per via del lungo inverno) di rapirle. Da un lato è una delle apoteosi del maschilismo in questo film e persino il gioco di sguardi che fa capire al pubblico, nonché ai protagonisti stessi, che le donne erano innamorate dei fratelli, difficilmente discolpa l’atto. Quando Milly scopre la bestialità del gesto è la prima a difendere le donne e proteggerle dagli uomini, facendo dormire questi ultimi nella stalla come animali. È lei il vertice della nuova gerarchia. Sarà il tempo a calmare gli animi e a sistemare le cose. Dobbiamo pur sempre considerare che si tratta di un film, fatto inoltre nel ’54, col sottogenere della commedia, quindi Happy Ending ed escamotage del Deus Ex-Machina sono sempre in agguato.
Quello che ci rimane tuttavia è un musical apparentemente maschilista che però viene ribaltato su se stesso grazie alla potenza della protagonista. È lei il vero fulcro di questo occhiolino fatto indirettamente al pubblico. Questo è analogo a ciò che succede ad una certa bisbetica che ironicamente enfatizza l’importanza di servire il proprio marito proprio nell’ultima scena dell’ultimo atto, prendendo per se l’ultimo monologo e finendo lo spettacolo strizzando l’occhiolino nuovamente, magari di sottecchi, al pubblico.