C’è qualcosa di catartico in una seconda fine che arriva dal nulla, a distanza di molto tempo, per dare una conclusione diversa o quantomeno inattesa ad un prodotto che era stato forse dimenticato nei meandri del consumo incessante di serie televisive.
A mio avviso questo è il caso di Dexter: New Blood, una serie che già all’epoca si era conclusa con un finale probabilmente fin troppo aperto, ma che non richiedeva necessariamente un seguito.
Sicuramente non ho la pazienza per riguardarmi tutto Dexter e portare una riflessione più seria e completa, confrontando le prime stagioni con l’ultima appena uscita. Giusto per spiegare velocemente, Dexter è un anti-eroe in quanto uccide i malfattori, ogni puntata strutturata quasi come un CSI dove bisogna scoprire il responsabile del delitto prima di arrestarlo (e in questo caso l’arresto è per sempre).
Da quello che mi ricordo, Dexter era stata tra le poche serie televisive dove il protagonista non era così bidimensionale; certo, il modello dello svilupparsi delle puntate rimaneva costante, ma quello è da aspettarselo (come nel caso di Dr. House dove già si sa che non è lupus e dove il caso diventa secondario in quanto tanto il buon dottore caustico capirà l’origine della malattia grazie ad una rivelazione bizzarra solo alla fine). Quello che mi aveva incuriosito all’epoca era che ogni stagione vedeva Dexter evolvere, crescere, non tanto riguardando il suo modus operandi quanto come persona. Il suo rapporto con il proprio codice, le sue riflessioni sulla moralità di quello che sta facendo, persino una stagione dove sta per essere scoperto e dice (diretto verso il pubblico per aumentare l’impatto) che è la prima volta che sente il suo cuore palpitare – una emozione a lui fino ad allora sconosciuta. Non si trattava solo della paura di essere scoperti quanto della consapevolezza di un killer, altrimenti privo di sentimenti ed empatia, a rendersi conto di ciò che sta facendo. Le dinamiche sarebbero molteplici, ma non sono interessato ad addentrarmi troppo in questa sede.
Dicevo quindi che la serie originale si chiudeva sullo sguardo inespressivo di Dexter, ancora in vita dopo che era andato incontro alla sua morte, cercandola nell’occhio di un ciclone. Riprenderà ad uccidere? Si ritirerà ad una vita tranquilla? Ciò che è sicuro è che lascia la sua vita precedente alle spalle, ma cosa ne diventerà di lui si vedrà solo dopo otto anni con questa miniserie conclusiva. Una catarsi inaspettata a mio avviso, ma molto apprezzata, come buona parte delle cose inattese e che dà quello che chiamerei “the sense of an ending”.
Riguardante quello che ho da dire sull’ultima puntata di questa miniserie, e se volete vedervela vi avviso che quello che sto per dire porta ad uno spoiler, è di carattere più pratico. Riassumerò la mia idea con un semplice “crime doesn’t pay”.
Il punto di vista che cercherò di riassumere è una considerazione più lunga e complicata, una riflessione che è sempre stata controversa. Riguarda una certa punizione (spesso di carattere moralistica derivante dalla trama) ad una persona che fa del male, anche se questo male è a fin di bene. Insomma, è giusto punire qualcuno, anche agendo fuori dagli standard legislativi, se questo qualcuno se lo merita (nel caso specifico di Dexter perché uccide altri)? Torna in mente Batman che segue un codice del tipo “se uccidi un criminale, il numero di criminali al mondo resta lo stesso”. Certo, il cavaliere oscuro, in molte versioni si limita ad incapacitate (forse a vita, come osserverebbero alcuni amanti della lore) i cattivoni di turno, ma a questo punto la domanda arriva istintivamente: e se una persona ne uccidesse due di criminali? In quel caso la somma complessiva non sarebbe più nulla, ma diventerebbe meno uno. Nel caso di Dexter una considerazione simile è altrettanto applicabile: assumendo che il protagonista uccida più o meno un criminale a puntata, per otto stagioni complessive, ci avviciniamo ad una novantina di criminali giustiziati senza possibilità d’appello. Purtroppo, tra i malcapitati, ci sono stati anche alcuni innocenti che per una ragione o per l’altra (bisogna pur sempre mettere l’esca sull’amo per far abboccare lo spettatore) si sono avvicinati a scoprire il suo segreto. In vari punti però si è visto il dispiacere di Dexter per le conseguenze delle sue azioni, è consapevole di essere seguito dalla morte ovunque vada. Anche se la sua intenzione è stata sempre quella di togliere di mezzo i criminali, bisogna anche aggiungere però che questo impulso derivava anche dal suo desiderio nascosto di uccidere. Moralmente ambiguo sì, ma è proprio questo uno dei punti forti della serie e quindi forse anche per questo si è deciso di dargli il finale che gli spetta.
E qui finalmente torna il “crime doesn’t pay” di prima, usato non proprio nel modo giusto, ma ce lo facciamo bastare. Il destino di Dexter è segnato, probabilmente fin dal principio, da quando ha ucciso la sua prima vittima. È un destino che è stato marcato anche per via di un escamotage narrativo e moralistico, ma uno pur sempre saldo e funzionale. Non so perché, ma vedendo quell’ultima scena, oltre a quel piccolo momento di liberazione, mi è tornato in mente la figura di Light Yagami, due parti di una simile medaglia anche se di mondi diversi, entrambi con un destino segnato dalle loro proprie azioni.
Nei suoi ultimi momenti esiste per Dexter una certa consapevolezza e conoscenza di se stesso, collegata in gran parte a suo figlio, e questo lo rende forse un anti-eroe fin troppo umano. La sua riflessione, in ultima istanza, porta a quella catarsi che si rispecchia nelle mille sfaccettature della vita: la solitudine, il destino, i fardelli, i desideri incontrollabili, la speranza e tutto ciò che si trova contemporaneamente in ognuno di noi.