Il vasto orizzonte era appesantito dal colore metallico dei dirigibili che avanzava lentamente. I trasportatori mastodontici trasportava le nuove reclute verso l’obbiettivo da colpire e verso il loro destino.
Il Maggiore DeCloude ispezionava i suoi uomini, guardandoli dall’alto verso il basso. La maggior parte di essi fremevano, non certo per paura, ma per via del freddo. Tutti erano pronti per il grande salto, per l’attacco frontale; compiere la missione, affrontare il proprio fato. Il dirigibile continuava a guadagnare altitudine, ad avanzare lentamente, portato quasi dalle correnti d’aria gelide. Le uniformi dei soldati variavano dal grigio perla all’azzurro spento per via delle incrostate di piccoli cristalli di giaccio; il freddo ormai stava spazientendo le truppe. Non vedevano l’ora che qualcuno desse loro il segnale.
Il comando arrivò perentorio. Iniziarono a saltare, ad uno ad uno, sempre più velocemente, quasi in ordine sparso. Da terra, la potenza sovrastante di quell’esercito era evidente: il cielo cupo, prima tappezzato dalla moltitudine di dirigibili, ora era inondato da soldati impavidi. Le reclute, da parte loro, saltavano senza guardarsi indietro, scendendo in picchiata ad una velocità spaventosa.
Ciò che vedevano i soldati erano dapprima i campi, in lontananza, poi avvicinandosi sempre di più, la città, le cupole delle grandi chiese, i tetti, le grondaie e infine uno spaesamento di strade scure e fredde; il duro asfalto li attendeva. Niente paracadute per loro, la loro missione era chiara; si infrangevano con violenza dove capitavano.
Il temporale ormai si stava scagliando con irruenza contro la città assettata; le nuvole bige, lente come dirigibili, continuavano imperterrite a tempestare di pioggia belligerante le strade e le case.
Nell’aria c’era l’odore fresco di primavera e di strade bagnate.
I soldati stavano portando a termine la loro missione.