E’ indiscutibile come la trilogia cinematografica di Peter Jackson de “Il Signore Degli Anelli”, uscita nelle sale tra il 2001 e il 2003 e basata sull’omonimo romanzo di J.R.R. Tolkien, abbia cambiato la percezione del genere Fantasy nell’immaginario del grande pubblico. Da quel momento, nuove generazioni hanno rimpinguato i ranghi degli amanti del Professore di Oxford, che grazie al lavoro di Peter Jackson, si sono avvicinati alle sue opere.
Questi appassionati dell’universo tolkeniano erano un numero così importante, il ritorno economico della trilogia cinematografica così vasto, l’opera letteraria tutta del Professore stava conoscendo una nuova primavera, che dopo undici anni di attesa nelle sale cinematografiche di tutto il mondo si sentirono nuovamente i flauti e i violini che erano diventati nell’immaginario comune, assieme alle lussureggianti, il simbolo indiscusso della Contea. Dal 2012 al 2014 la trilogia de “Lo Hobbit” ha riportato nella Terra di Mezzo milioni di fan, e come successe un decennio prima, avvicinò altre generazioni al Legendarium di Tolkien.
Questo ci porta ad oggi nell’anno domini 2019 a filosofeggiare sulla pellicola biografica Tolkien (2019) del regista finlandese Dome Karukoski.
Considerando come gli avvenimenti della vita del Professore siano stati pubblicati a più riprese, da diverse case editrici, non reputiamo che la descrizione della trama del film sia spoiler, sappiate comunque che da qui in avanti si parlerà nel dettaglio degli avvenimenti del film.
Il film inizia in medias res con il giovane Tolkien nella trincea del fronte occidentale all’alba della Battaglia della Somme: l’immagine che abbiamo è cruda come la realtà della trincea è stata, ed il realismo della guerra è mantenuto in tutto il film. Il poco più che ventenne Tolkien è malato, febbricitante, con quella che sarà poi la ragione per cui sarà rimpatriato, ossia la febbre da trincea; sta cercando il suo migliore amico di stazione Geoffrey Smith anch’egli in trincea ma in un altro reggimento.
Durante questa febbricitante ricerca, dal fumo e dalle fiamme delle bombe, emergono forme a cavallo che si aggirano per il campo di battaglia, alcune combattendo valorosamente tra loro, altre vagando alla ricerca di vite da prendere. Non a caso ne Il Signore Degli Anelli le prime figure a lui avverse che il protagonista incontra sono dei cavalieri incappucciati, e sempre, non a caso, le grandi battaglie della Terra di Mezzo sono spesso scontri a cavallo.
L’esperienza diretta degli orrori della guerra ha dato un particolarissimo taglio alla produzione letteraria di Tolkien: il suo disprezzo per essa è assoluto, e crea dunque degli Antagonisti che siano portatori di caos e distruzione, pervasi dalla volontà di sottomettere altre popolazioni al solo scopo di dominare il mondo conosciuto, una sete di potere senza fine, causa di terrore e disperazione nella popolazione. I mezzi di propagazione di questa forza conquistatrice sono fiamme, fuoco e ferro: l’Industria.
Questo scarso apprezzamento del Professore per lo sviluppo delle tecniche e delle scienze, per la Rivoluzione Industriale insomma, deriva dal suo grande amore per le campagne inglesi nelle quali passò i primi anni della sua vita dopo il trasferimento dal Sud Africa, e i primi anni della sua formazione. Questo profondo legame con la natura, gli alberi e la campagna con molta probabilità fu trasmesso a Tolkien dalla madre, la quale visse con i figli in diverse tenute di campagna, e fosse solita leggere al giovane Ronald e al fratello Hilary grandi storie di avventure cavalleresche, ambientare in luoghi che poco avevano in comune con i grandi centri urbani.
I grandi fan a questo punto sono già in delirio, ritrovando nei paesaggi e nelle atmosfere bucoliche quelli della Contea dei quali sono innamorati da diciotto anni e anche più.
La storia prosegue a passo spedito, e dopo il trasferimento a Birmingham entriamo nel vivo degli anni di formazione: la madre muore improvvisamente a causa del diabete, e i giovani fratelli Tolkien (hanno dodici e dieci anni all’epoca) sono dunque affidati al loro tutore, il sacerdote cattolico degli Oratoriani, padre Francis Morgan, che li affida ad una ricca donna inglese, che ospita orfani e garantisce loro istruzione.
In questo contesto hanno luogo alcuni degli eventi più importanti per la vita di Ronald Tolkien: conosce qui Edith Bratt, anche lei ospite della gentile e ricca donna, della quale si innamora a diciotto anni e che sarà la sua compagna di vita per i successivi sessanta; la loro storia d’amore sarà il filone centrale del film da qui in poi, assieme all’amicizia con il gruppo di amici di scuola dei quali tratteremo più avanti.
Molto suggestivi i dialoghi tra i due innamorati, poiché iniziamo ad entrare nel vivo della produzione linguistico letteraria del Professore: i due infatti discutono sul linguaggio, di come le parole per quanto musicali siano vuote, se non evocative di qualche significato, di qualcosa di più che semplice suono.
Tramite la passione di Edith per Wagner e del ciclo dei Nibelunghi, viene posto il seme del grande tema della Ricerca, della Quest epica come linea narrativa, come anche dell’oggetto che nell’immaginario comune è diventato il simbolo di Tolkien: l’Anello del Potere.
Iniziano anche a spuntare quegli elementi che fan più fanatici come le sottoscritte vanno ricercando, ossia riferimenti al Legendarium inteso in senso più ampio: si ha dunque Edith che danza sotto gli alberi, a richiamo di Luthién Tinuviel e del racconto della storia d’amore principale dell’intero Legendarium, Beren e Luthien appunto, che prende ispirazione dalle vicende personali di colui che scrive la storia. Nei secondi finali del film ci mostrano delle didascalie con alcuni eventi importanti e successivi rispetto agli avvenimenti raccontati, e per i fanatici è un po’ un boccone amaro da mandare giù: non potete solo dire che sulle lapidi del Professore e di Edith ci sono scritti i nomi di due personaggi del mondo inventato da Tolkien, un umano e una principessa elfica, bisogna inserirli quei due nomi.
E’ chiaro l’intento divulgativo del film, di aprire al più ampio pubblico possibile, ma i grandi affezionati e diciamocelo il 75% buono di pubblico pagante che vedrà il film nelle sale, hanno delle aspettative: possiamo soprassedere sull’aver completamente tralasciato l’importanza della religione cattolica nella vita e nella poetica del Professore, che avrebbe appesantito il film, ma non questa superficialità nel citare le opere a metà. Anche Peter Jackson cita Beren e Luthien ne “La Compagnia dell’Anello”, nonostante tutte le critiche che possono essere mosse alla trilogia dei film. Ma quella è un’altra storia.
Molto apprezzato invece il lavoro di grafica su dei rimandi al Legendarium meno facilitati dall’elemento biografico:
La pellicola si concentra poi molto sugli anni di formazione scolastica; alla King Edward’s School di Birmingham il giovane Tolkien incontra i suoi grandi amici e con quattro principali di questi fondò la Tea Club Barrovian Society (TCBS), una sorta di confraternita di giovani talenti delle arti della Birmingham dell’ante guerra; i membri di questa società, che si incontrava nella sala da tè Barrow Stores furono il già citato Geoffry Smith, Robert Gilson, Christopher Wiseman e Tolkien stesso.
E’ interessante questo punto di vista sulla vita del Professore perché meno noto al grande pubblico in confronto all’amicizia con C.S. Lewis e i ben più famosi Inklings. Vengono mostrati i primi anni di formazione scolastica, le difficoltà dell’adolescenza di conciliare il gruppo degli amici con i primi amori, ma soprattutto come Tolkien sia un fine amante dell’arte in tutte le sue forme: prosa, poesia, musica e pittura, e i quattro principali componenti del TCBS incarnano proprio questo.
E’ nel pieno splendore di questa piccola società per lo sviluppo delle arti che scoppia il primo conflitto mondiale, dunque l’arruolamento di tutti i membri della società. Ecco che ci si ricollega all’inizio di questo articolo, ed ora sappiamo chi Tolkien stia cercando, ci siamo anche affezionati a questo personaggio: tuttavia siamo in guerra, e uno dei pregi di questo film è il realismo della condizione del soldato in guerra, senza sconti.
Dopo sei mesi di combattimento nelle trincee alla Somme J.R.R. Tolkien è rimpatriato e al suo capezzale trova Edith, e poco dopo incontra padre Morgan, suo ex tutore, e sarà questi a dargli la notizia: di tutti i suoi amici partiti in guerra con lui solo Christopher Wiseman è sopravvissuto e rimpatriato, benché anch’egli con delle ferite, che potranno non essere fisiche, ma dell’animo. Il tema delle ferite di guerra lo ritroveremo prepotentemente ne “Il Signore degli Anelli”: tornarne non sempre significa tornare alla vita di prima.
A questo punto del racconto uno stacco di circa cinque anni (secondo la biografia dovremmo essere attorno al 1920) ci porta ad un Tolkien effettivamente Professore al collegio Exeter di Oxford, che durante una passeggiata nelle campagne inglesi inizia a raccontare ai figli la storia che tutti conosciamo come “Lo Hobbit”.
Per i più appassionati e fanatici come noi, alcune critiche di contenuto più nel dettaglio che, a nostro parere, sono state il motivo che hanno spinto la Tolkien Estate a prendere le distanze dal film.
La questione religiosa non è neanche lontanamente toccata, una decisione che possiamo comprendere e che, come è già stato detto, possiamo perdonare, in quanto avrebbe appesantito un po’ troppo la pellicola. Il rapporto burrascoso che viene ritratto nel film tra Tolkien e padre Francis è, forse, al limite, dal momento che, come ben sa la maggioranza dei fan del Professore, la religione cattolica ha svolto un ruolo fondamentale nella sua vita e produzione letteraria con personaggi e situazioni che ricalcano la tradizione cristiana, a volte in maniera più sottile e a volte in maniera più palese come, ad esempio, lo scontro tra Manwe e Melkor che ricalca in molti aspetti lo scontro tra San Michele e Lucifero.
Possiamo anche perdonare il voler romanzare, non stravolgendo troppo, la storia romantica che, pur non essendo esattamente ricalcante la realtà dei fatti, è stata trattata con il rispetto dovuto. Nonostante questo, siamo leggermente irritate che l’unico contributo che pare essere attribuito a Edith sia la semplice funzione di musa ispiratrice cancellando quindi il suo ruolo di prima correttrice di tutte le bozze e idee del marito, ben più importante del ruolo passivo che viene mostrato nel film, dove appunto pare essere semplicemente lo spunto per l’inizio della produzione.
Sempre parlando da appassionate al limite del fanatismo reputiamo una leggerezza non aver calcato un po’ di più la mano con dettagli del Legendarium. Una leggerezza derivata anche da alcune inesattezze nella datazione, sappiamo infatti, grazie alle prefazioni del figlio Cristopher alle opere da lui curate, che quello che sarebbe poi diventato il nucleo della mitologia del Professore cominciò ad essere messo per iscritto attorno al 1916 nelle trincee ma che le idee principali avevano già una forma più o meno precisa. Far dunque dire al giovane Tolkien, all’alba della guerra: “io scrivo storielle” è stato un po’ deludente visto che sappiamo che il progetto originale per il Silmarillion era creare una mitologia che spiegasse la storia e la cultura inglese e ridurre questo progetto a storielle, come fan, ci ha fatto male. Perdonando comunque queste piccolezze, non siamo riuscite però ad accettare i riferimenti fatti solo a metà. E’ stato deciso, a livello registico, di mostrare graficamente le suggestioni della guerra trasformate nel delirio della febbre, dunque la domanda che ci siamo poste è stata: dal momento che le lingue elfiche erano già praticamente sviluppate a livello di come le troviamo nelle opere pubblicate, lo sappiamo sempre grazie a Cristopher, perché non inserire qualche nome in più? Di certo sarebbe stato molto carino per i fan vedere il giovane Tolkien che chiama Edith “Tinuviel”, “Usignolo” in Sindarin, a ricalcare poi la storia di Beren e Luthien, oppure fargli citare i nomi di qualche Vala o degli alberi, visto che ci si è già preso qualche libertà perché non darci un contentino anche in questo senso?
Ma poi perché non scrivere alla fine del film i nomi di Beren e Luthien visto che sono il nucleo narrativo da cui poi origina tutto il Silmarillion e il primo poema completato da Tolkien?
Tirando le somme: il film è apprezzabile, poiché tratta una parte della vita di Tolkien che non è usuale sentir raccontata, e fornire un’idea di come per questo autore fantastico, lo scrivere di lingue, di mondi, sia sempre stato parte della sua vita.
La pellicola ricalca il filone degli ultimi biopic usciti nelle sale negli ultimi tempi, non è tremendamente dettagliato e anche un po’ romanzato, fatto per avvicinare il grande pubblico al personaggio protagonista. Ma mentre possiamo capire come questo format funzioni con personaggi come Churchill o Elton John, nei cui biopic il cast era anche ben più importante e internazionalmente conosciuto, nel caso di Tolkien non ci si può aspettare di attirare gli stessi numeri di Rocketman. Tolkien non è una figura che attira le masse, il pubblico che c’era in sala quando siamo andate noi, ad esempio, era composto al 99% da appassionati delle opere da una vita intera e l’1% era una coppietta a cui serviva una sala semivuota per pomiciare in pace.
Era chiaro che non era questo l’intento ma, purtroppo, era chiaramente, a nostro parere, un film di nicchia che solo i veri appassionati sarebbero andati a vedere, che avrebbe dunque potuto permettersi di calcare la mano con i riferimenti alle opere.
E’ un film che consigliamo, dopo oltre duemila trecento parole di retorica e critiche? SI. Se conosci già Tolkien perché è uno scorcio su alcuni elementi che magari non hai approfondito come appunto la biografia e se non conosci già il professore oltre alla penna dietro al Signore degli Anelli o Lo Hobbit perché è un modo per capire la ragione di alcune importanti scelte di trama, nonché di caratterizzazione di personaggi.
Scritto da
Maria Beatrice Brancati, fanatica di Tolkien e psicologa (come bother me on Facebook)
Giulia De Marchi, come sopra ma senza psicologa né laurea